Sotto i sedili le bustate di roba da mangiare e da bere indicano che, alle brutte, qualcosa per finire in bellezza la girata s’inventa.
Alla partenza da Sassetta il meteo non è malissimo e, approntati i destrieri, si parte. Ci separiamo subito da Giacomo, convalescente, il quale si limiterà ad un giro su bitume in attesa del nostro ritorno. Gli altri cinque s’impegnano subito sulla salita della Valcanina, ottimo sistema per riscaldarsi, poi giù nel bosco su fondo inaspettatamente non troppo allentato. Il sentiero diventa via via più stretto e ci preoccupa un po’ il tratto successivo che ricordiamo essere spesso invaso dai pruni; intanto sono le frasche che ci disturbano, inzuppandoci ad ogni contatto.
Dopo il guado si risale un bel po’, perfino troppo, e ci viene il dubbio di aver mancato un bivio. Il GPS non mi aiuta, avrei la traccia ma oggi l’apparecchio ha qualche problema e si blocca. Ci debbono essere degli influssi astrali negativi.
Decidiamo di proseguire ugualmente verso il Monte Coronato, un tragitto alternativo che abbiamo fatto alcuni anni fa, anche se sappiamo che ci costerà un bel tratto a piedi, ma almeno eviteremo il prunaio.
Purtroppo succede un fattaccio: la Genius di Ugo s’infortuna seriamente al cambio posteriore, e grazie anche al sistema “geniale” senza forcellino sostituibile, non può proseguire. Non gli rimane che ritornare a Sassetta, che per fortuna da quel punto è facilmente raggiungibile.
Lasciato Gambasecca al suo amaro destino, imbocchiamo una insperata deviazione che, a lume di naso, ci dovrebbe riportare sul percorso originario evitando ugualmente il prunaio. E’ una pietraia infame ma mantiene la promessa e riguadagniamo la Valle delle Rozze: lo stradello che percorre il fondovalle è ridotto ad un torrente, a sguazzarci dentro sembra di essere nel Rio Maggiore. Ganzissimo.
All’uscita dalla valle una sorpresa: la teleferica della cava della Solvay è stata smantellata e sostituita dalla ferrovia. C’è un sottopasso e, con una pettata sterrata molto viscida, arriviamo sull’asfalto nei pressi di S. Carlo.
Paolino ha problemi di impaccamento della ruota posteriore per il fango, ma anche gli altri non sono da meno con catene e gabbie del cambio imbrattate, ma ci dovrebbe essere una fontana…
Si, è così. Anzi, ancora meglio del previsto: c’è perfino un tubo di gomma infilato che sembra messo qui apposta!
Ripulite le trasmissioni si riparte, lasciando l’asfalto dopo poche centinaia di metri c’infiliamo dapprima in uno stradone sterrato e poi in un sentiero che funge da campo di tiro con l’arco.
Atmosfera surreale, sentiero molto pulito con animali verosimili (ma improbabili, c’è perfino una specie di puma): naturalmente sono bersagli, ma fanno uno strano effetto in quel contesto.
Arriviamo all’ingresso del Parco Archeominerario, imboccando il sentiero della Valle dei Manienti, tra miniere medievali e, addirittura, preistoriche.
Ci aspettavamo qualche difficoltà a causa delle pietre umide, invece troviamo un fondo ricoperto da uno strato di polvere bianca, il minerale della cava portato giù dalla pioggia. Il risultato è che sembra di pedalare su un letto di colla da pavimenti, stesa di fresco…
Con le bici e le gambe imbrattate di bianco arriviamo sotto la Rocca, da raggiungere con bici a spalla superando un pendio piuttosto ripido e scivoloso che mette a dura prova le nostre capacità arrampicatorie.
In cima tira vento e schizzetta, optiamo per proseguire senza fermate. Il ponte di ferro che supera la strada delle miniere è chiuso da un cancellino con lucchetto, ci tocca “trabarcarlo”. Con un tratto tecnico in discesa arriviamo alla stazioncina d’arrivo del trenino che porta i visitatori alla Rocca, un ottimo luogo di sosta per rifocillarci: tettoia, panchine, fontana, solitudine e panorama sul parco.
Alex, con ottimo tempismo, si accorge di aver appena forato. Mentre mangiamo e ripariamo la ruota arriva il trenino con uno sparuto gruppetto di turisti, che ripartono poco dopo sotto una pioggerellina fitta.
Oltre alla foratura c’è un guasto alla gabbia del cambio che ci fa perdere un po’ di tempo, poi ripartiamo mentre il tempo migliora e fa capolino un raggio di sole.
Uno stradone sterrato pressoché pianeggiante ci porta velocemente nei pressi del Temperino, la struttura che funge da Centro Visitatori del Parco. Da qui inizia un sentiero che scavalca il Centro e s’innesta direttamente sulla salita verso il Monte Calvi che ci riporterà verso Sassetta. Era qualche anno che non ci si faceva questa salita, e non me la ricordavo così ripida e lunga…
Onore al merito soprattutto di Paolino e Alex, provenienti da un periodo di scarsa forma fisica, ma anche per me non è un momento esaltante e abbiamo dovuto stringere i denti. Solo il Dr. Alzheimer, con le gambe dello stradista, sale abbastanza sciolto quella che assomiglia ad una “Voltina” lunga come le Vallicelle…
Lasciata la strada sterrata ci arrampichiamo ancora attraverso il bosco, per fortuna il GPS dopo un paio di resettaggi ha ripreso vita e assiste la nostra labile memoria in quel dedalo di stradelli.
Paolino ci chiama dalle retrovie, ha rotto la catena. Niente di grave, smagliatatene e falsamaglia e via, si riparte.
Finalmente raggiungiamo il culmine oltre il quale si scende verso il podere Cancellino, e mi fermo per rispondere ad una telefonata: è Ugo che, davanti al camino insieme a Giacomo in casa di quest’ultimo a Sassetta, reclama il nostro rapido ritorno perché ha fame! Siamo in cima, rispondo, arriviamo.
Non faccio in tempo a chiudere il telefonino che sento Alex smoccolare, cambio risucchiato dai raggi posteriori e forcellino tritato. Si, ci sono senz’altro degli influssi astrali sfavorevoli.
Ma noi siamo mooolto più testardi del malocchio, adattiamo un forcellino di fortuna che ha già salvato la pelle a Gede e a Lorenzo e forse a qualcun altro, e si riparte.
Lunga discesa, finalmente. E’ divertente ma impegnativa per l’enorme quantità di pietre, e bene o male arriviamo alla strada della Valcanina. Ancora sterrato e ancora salita, ma sono gli ultimi strappi.
Già pregustiamo la sorpresa che senz’altro Ugo ci avrà preparato nell’attesa: avrà cucinato le leggendarie “quaglie coll’ulive”? Senza accorgercene quasi arriviamo alla base, stanchini ma soddisfatti per aver vinto una specie di battaglia, un torneo della sfiga che ci ha visto premiati con il trofeo più bello: una tavola imbandita di ogni ben di Dio.
Escluse le quaglie, però. Neanche stavolta ci sono toccate.
Pazienza.
P.S.: per capire com’era ignorante la colla da pavimenti vi basti sapere che ho dovuto lavare la bici…